«Palermitani»

Gabriello Montemagno, relatore al Seminario 'Marcello Carapezza' 2016Gabriello Montemagno, classe 1938, originario di Caltagirone, giornalista, scrittore, autore, regista ed attore teatrale. E' lui a tenere l'edizione 2016 del Seminario dedicato a Marcello Carapezza. Montemagno conosce Carapezza durante i 25 anni passati al quotidiano L'Ora ("ci veniva a trovare in redazione") dove viene trasformato da Vittorio Nisticò da critico teatrale in giornalista professionista. Per 20 collabora con il settore programmi della Rai in Sicilia. Fra i suoi libri, Il babbìo. Storia della stampa satirica a Palermo (2013), Da Ciancimino a Orlando. Ascesa e caduta della «primavera» di Palermo (2014), Eppur non si muove (2010), Storie oltre il sipario (2015), Lettere palermitane (2010). Nel 1960, nella versione cinematografica de Il Gattopardo, Luchino Visconti gli fa recitare la parte del liberale che canta La bella gigocin sotto il balcone del principe a Donnafugata ("Con i guadagni di quella particina mi comprai tutto quello che serviva per la fotografia"). Fra le sue opere teatrali Bravo, Bert! (2006), una commedia da lui scritta e per celebrare il cinquantennale della morte di Brecth, in cui lui difende il drammaturgo, e l'altra protagonista ne ricorda le miserie di vile, plagiaro e comunista amante del lusso.

L'argomento scelto da Montemagno è quello dell'identità dei siciliani; e dei palermitani in particolare. "Una breve crestomazia letteraria sulle virtù della stirpe sicula", scrive Montemagno, "nata in occasione della presentazione del libro di Daniele Billitteri 'Homo Panormitanus'. Un libro, questo, competente, acuto, ironico, divertente e particolarmente consigliato per un aggiornamento sul palermitano del XXI secolo".

L'indole del popolo palermitano

Le prime considerazioni sull’indole del popolo palermitano le sentii da mio padre, in seguito ad un piccolo avvenimento tanto trascurabile quanto, per me, indelebile. Accadde all’imbrunire di un giorno di primavera del 1948, durante una prima passeggiata alla scoperta della città, io appena fanciullino, al fianco dei miei genitori. Tutti da poco trasferiti nel capoluogo da Caltagirone città gratissima. Era un pomeriggio abbastanza tiepido, infatti mia madre indossava un vestito leggero con un ampio décolleté.

Accadde una cosa che non avremmo mai immaginato che potesse accadere: sul petto di mia madre piombò dall’alto di un palazzo un involto che nell’impatto si aprì e lasciò sparpagliare lische di pesce e rifiuti di cibi assortiti. Da qui quelle considerazioni paterne che una penna sobria si rifiuta di trascrivere. Però, imparammo, a nostre spese, che a Palermo i rifiuti si gettavano dai balconi. Ci dissero che si trattava dell’allora famoso “coppo”, di cui le famiglie si liberavano così dopo il tramonto.

Giuliana Saladino

«Il silenzio della sera d’estate – racconta Giuliana Saladino – era rotto a ogni momento da tonfi secchi come fucilate. (…) Da finestre e balconi tutto intorno alla piazza piovevano, si spiaccicavano, si spaccavano i sacchetti neri della spazzatura, coi loro resti immondi, a volte con fragore di vetri (bottiglia di latte o lampadina fusa) a volte con rumore di metallo (scatola di pelati o lattina di olio di semi). Era schifoso» [1].

(Fortunatamente, quest’usanza “schifosa” pare sia definitivamente tramontata. Per non parlare di certi metodi primitivi ancora in voga nello smaltimento dei rifiuti casalinghi !) Ed è impietosa, Giuliana Saladino, nel considerare il carattere dei nostri conterranei, a cominciare da quell’indolente ma chi me lo fa fare, che – dice - «è alla radice di tutti i nostri mali presenti, passati e futuri, il tarlo che ci rode e ci smidolla, (…) quel solido impasto di ignavia e arroganza, sfiducia e sospetto, narcisistica autosufficienza e vittimismo, che ci faceva avventurieri, tragediatori, piagnoni e pigri, pronti sempre a invocare le troppe dominazioni e/o inadempienze dall’unità in poi, furbi stanchi e ribaldi, in una parola: siciliani» [2].

E’ curioso come giudizi sui palermitani e sui siciliani si ripetano con molta somiglianza nel corso di oltre venti secoli. Cosa che fa riflettere sull’immutabilità del carattere di un popolo; a conferma delle immutate influenze nei secoli, mutatis mutandis, delle condizioni e dei rapporti socio-economici. Ma qui si aprirebbe una voragine teorica, a partire dalla legge della popolazione di Karl Marx. Dunque, volando più basso, se i giudizi sono così persistenti e le fonti così varie, avranno una certa validità e verità, nonostante talvolta non possano farci molto piacere.

Cicerone

I primi giudizi che ho incontrato nella mia attività di lettore dilettante sono quelli espressi dal grande avvocato Marco Tullio Cicerone, che parlava a ragion veduta, visto che della Sicilia occidentale era stato governatore nel 75 a.C. (Cicerone come Cuffaro, Lombardo e Crocetta! Senza parlare di tutti gli altri governatori, viceré e presidenti della regione a statuto speciale!).

Cicerone ne parlò ampiamente nelle sue filippiche contro le malversazioni di Verre, il quale, come governatore della Sicilia dal 73 al 70 a.C., si era macchiato di reati di concussione, rapina, tangenti e ritorsioni (e questo è più normale). Così, nelle sue “Verrine”, Cicerone definisce i sudditi siciliani di volta in volta come: «Gente acuta e sospettosa, nata per le controversie» o come «Gente troppo sofistica e sospettosa» o anche, più benevolmente, «Siciliani gente timida e tribolata». In fondo, duemila anni dopo, la
Saladino, come abbiamo visto, non dice le stesse cose?

Ibn Hawqal

Se c’è da considerare con molto rispetto le impressioni di un intellettuale e politico come Cicerone, sono da prendere, invece, con molto sale le affermazioni palesemente piene di livore del mesopotamico Ibn Hawqal. Era, costui, un geografo e viaggiatore, ed anche, a quanto pare, informatore politico dell’Egitto, insomma una spia. Ibn Hawqal venne a Palermo ventisette anni prima dell’anno Mille, e qui dovette trovare una certa ostilità.

Non si giustifica altrimenti l’evidente acrimonia delle sue descrizioni, come questa: «I Palermitani sono stati indotti a bere acqua di pozzo in luogo di quella dolce e corrente, dalla loro scarsa nobiltà d’animo, e dal gran mangiare cipolle crude, che ha rovinato loro i sensi. Non c’è uno fra loro, di qualsiasi classe sociale, che non ne mangi ogni giorno e nella cui casa non se ne mangi mattina  e sera, ciò che ha guastato loro la testa e rovinato il cervello, scemato l’intelletto e sfigurato i tratti del volto, alterando la loro complessione in modo che vedono le cose diverse da quello che sono in realtà». E cose del genere.

Tradotte per la prima volta a metà Ottocento da Michele Amari nelle sue Storie dei Musulmani di Sicilia.

Singolare è la particolare avversione che il trafficante saraceno nutriva per i maestri di scuola palermitani: «Si aggiunga ancora che in Palermo ci sono più di 300 maestri di scuola, che insegnano ai ragazzi; e la gente di lì crede che costoro siano la élite del luogo e uomini di Dio; questo, con tutta la ben nota loro deficienza di cervello e comprendonio, e con tutto che si sono ridotti a quell’arte di maestri di scuola per sfuggire ai doveri della guerra santa e per sottrarsi al servizio militare».

Ibn Hawqal, infine, è la fonte della abusata notizia relativa alle 300 moschee della Palermo araba: «Le moschee della città sono oltre trecento. Io non ne ho visto in tal numero in nessun’altra grande terra, foss’anche il doppio della superficie di Palermo… Domandai la cagione di questo fatto, e mi fu detto che la gente di là è così gonfia di superbia che ognuno vuole avere la sua moschea privata in esclusiva, dove non ci siano altri che la sua famiglia e i suoi dipendenti: tanto che ci sono magari due fratelli, dalle case contigue e confinanti, e ognuno dei due si è costruito una moschea per starci dentro lui solo. Lo scopo di ognuno di loro è che si dica: la moschea del tale, e non altro» [3].

Insomma, la moschea per occhio di mondo. Spagnolismo prima degli spagnoli. E questo sembra più credibile: quell’ essere o apparire dei siciliani più volte diagnosticato da Leonardo Sciascia. Apparenza: atteggiarsi “per occhio di mondo”; fare o non fare per paura di quel “che può dire la gente”. Ah, la gente!... La “gente” come il dantesco Minosse che «giudica e manda secondo ch’avvinghia».

Boccaccio

Un ruolo fondamentale, determinante, ineludibile ha l’apparenza nelle questioni relative alla condizione femminile. Di questo se ne fece interprete, dall’alto della sua competenza, Giovanni Boccaccio, che scrisse: «In Palermo erano ed ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà, le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi et onestissime donne» [4].

Ma il grande autore trecentesco onestamente aggiunge che queste virtù femminili sono diffuse anche in molte altre città. Non si può non essere d’accordo.

Scipione di Castro

Una diagnosi molto dettagliata sul comportamento siculo, particolarmente orientata sul versante politico-amministrativo ci viene dal messinese Scipione Di Castro, poeta e scrittore di cose politiche. Si tratta di quella famosa “relazione” che il Di Castro elaborò nel 1570 circa come “Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò Viceré di Sicilia” (è tanto interessante ed attuale che mi sono divertito a tradurla in italiano moderno; ma qui riporterò solo qualche breve passo).

Esordisce con un preoccupante avvertimento: attenzione, dice a Marcantonio Colonna, perché «Il governo di Sicilia è stato fatale a tutti i suoi Governatori. Perché, in breve tempo, si sono trovati coinvolti in pericolose difficoltà, e la maggior parte di essi ha lasciato in quel Regno sepolta la reputazione, in modo che neanche nella posterità è più potuta risorgere». In questo senso gli esempi anche attuali sono numerosi e sotto gli occhi di tutti.

Nel raccomandare a Marco Antonio le cose da fare o da non fare, Scipione Di Castro gli dà pure qualche dritta sul carattere dei nostri conterranei: «I Siciliani, in generale, sono più astuti che prudenti, più arguti che sinceri, amici delle novità. Litigiosi, adulatori e invidiosi di natura; sottili inquisitori dell’operato dei Ministri, e danno sempre per fatto tutto quello che essi farebbero se fossero in quel grado.

«Mentre, questi stessi, nel primo calore dell’amicizia, si dimostrano obbedienti alla Giustizia, fedeli al Principe, pronti a sovvenirlo, affezionati ai forestieri e cerimoniosi. La loro natura è composta di due estremi, perché sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano gli affari propri, essendo molto accorti e solleciti dell’interesse particolare. E per non comprometterlo si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque ritengono possa agevolare i loro disegni, e si rendono disponibili in modo che paiono nati solo per quello.

«Sono, dall’altro canto, d’incredibile temerità (spregiudicatezza), allorquando si tratti dell’amministrazione pubblica, e in questo caso procedono con modi del tutto differenti dai precedenti» [5].

Gli appellativi che Scipio Di Castro attribuisce ai siciliani li ritroviamo, sorprendentemente identici, in un manoscritto di anonimo spagnolo della seconda metà del ‘600, quindi un secolo dopo, tanto da far nascere il sospetto che l’anonimo spagnolo li abbia mutuati dal primo. Infatti dice: «Sono i Siciliani per quel che concerne i loro costumi universalmente stimati sospettosi, ed invidiosi; acuti però d’ingegno ed arguti nel dire … sempre più affezionati ai forestieri che ai loro paesani» [6].

Ma in particolare sui palermitani l’anonimo spagnolo (forse un ambasciatore) si esprime con maggiore benevolenza: «Il genio dei Palermitani è assai piacevole, ed oltremodo cortese, principalmente con i forestieri. Non è però che in tanta dolcezza di genio, e delizie di luogo, essi non alberghino in seno spiriti guerrieri e generosi». Questa dello spirito “guerriero” dei palermitani mi viene proprio nuova e inedita, ma tant’è; ed elenca tante vittorie contro i nemici ottenute dai cittadini di Palermo nei secoli passati. E aggiunge:

«Basta sol dire, che essendo questa città stretta d’assedio e mancandole canape per tessere corde valevoli a curvare gli archi, le donne palermitane si recisero i capelli, ed intessendone funicelli, se ne valsero per scagliare contro i nemici più palme che frecce».

Giovanni Maria Cecchi

Sorprendentemente, nello stesso periodo in cui Scipio Di Castro a Messina vergava i suoi “Avvertimenti”, a Firenze un altro intellettuale trinciava severi giudizi su palermitani e siciliani. Si trattava di Giovanni Maria Cecchi, letterato fiorentino, commediografo, notaio di mestiere. Oltre ad una nutrita produzione teatrale, scrisse nel 1575 un saggio storico-sociologico su alcune regioni europee (senza mai però muoversi da Firenze): “Delle cose della Magna, Fiandra, Spagna, e regno di Napoli” (poi ripubblicato nel 1867 da Zambrini, Bologna).

In questo saggio definiva i siciliani «altieri, e dove non è differenza grande di titolo, non si cedono l’uno all’altro; ardenti amici e pessimi inimici, subbietti ad odiarsi, invidiosi e di lingua velenosa, di intelletto secco, atti ad apprendere con facilità varie cose; e in ciascuna loro operazione usano astuzia». Ad onor del vero, questa cosa dell’arroganza (“altieri”) fra titolati in quell’epoca era universale: basti l’esempio manzoniano del lombardo Lodovico, poi fra Cristoforo, che uccide un nobile perché non gli ha ceduto il passo.

Brydone

Non sbaglio troppo se dico che per tutto il Settecento i viaggiatori che visitavano Palermo riferivano poi impressioni epidermiche, quasi sempre abbastanza superficiali, condizionate dalla buona accoglienza che i forestieri ricevevano. Un esempio per tutti è quello di Lord Patrick Brydone, venuto a Palermo nel 1770, insieme a Sir William Hamilton, ambasciatore inglese presso il re di Napoli. Ebbe qui un soggiorno piacevolissimo,  coccolato com’era da gente ricca, con la quale se la spassava.

E infatti dei palermitani scriveva: «Gente che sembra tutta agiata e di buon umore ... Ho un sacco di cose da scrivere su questa città: ne siamo ogni giorno più entusiasti, e la lasceremo con grande rimpianto. Siamo fatti segno a mille cortesie e siamo entrati in un piacevolissimo giro di conoscenze».

Per il resto, invece, le prime impressioni di un visitatore che passeggia per una città sconosciuta riguardano la povertà di certi quartieri, l’assalto continuo degli accattoni, lo sfarzo delle carrozze e … sempre, la sporcizia delle strade. Palermitani puliti nelle case e luridi per le strade! La sporcizia per le strade … Un’osservazione alla quale non si sottrasse neanche il celebratissimo Goethe. La monnezza. Certo, la gran monnezza di Palermo ha fatto sempre molta impressione a tutti.

Hager

Ma credo che la descrizione più obiettiva e sicura della Palermo settecentesca la faccia l’austriaco Joseph Hager, arabista di fama, fermatosi a Palermo per circa due anni, dal 1794 al ’96, durante i quali dimostrò l’imbroglio perpetrato dall’abate Vella con il suo “Consiglio d’Egitto” (l’arabica impostura). L’Hager dunque scrive: «Il carattere allegro e sincero dei napoletani non sembra essere altrettanto tipico dei palermitani; tuttavia qui non c’è quell’atmosfera rigida e tetra tipica dei piccoli centri. Il carattere dei siciliani è semplicemente orgoglioso e tronfio, oppure timido. Com’è naturale che accada in un paese che viene poco visitato, gli stranieri sono accolti con particolare affabilità e generosità».

Il suo libro “Impressioni da Palermo” è una relazione ampia e documentata di carattere socio-politica e non solo. E parlando dei circoli di conversazione osserva: «Talvolta il discorso viene brevemente interrotto da sguardi amorevoli o da frasi galanti, talvolta s’inserisce nella conversazione una piccola digressione sull’una o sull’altra signora assente.

«La maldicenza ed il pettegolezzo a Palermo sono di casa come a Parigi: i casi spiritosi e gli aneddoti ameni vengono apprezzati nei circoli siciliani tanto quanto sulla Senna. Il paese è complessivamente abbastanza illuminato (nel senso di apertura mentale – n.d.a); nessuno ti viene a chiedere di che religione sei… Con l’unica eccezione per gli ebrei, qui è ammessa ogni tipo di setta senza alcun limite; nessuno si preoccupa se uno va a messa ovvero se mangia carne nei giorni di astinenza …» [7].

Negli stessi anni in cui Hager scriveva queste cose, Giovanni Meli (il cosiddetto Abate) sferzava con i suoi versi urticanti i costumi dell’alta società palermitana di fine Settecento, lamentando anche «l’indole pecorina dei siciliani». Versi del Meli poi commentati così da Giuseppe Pipitone Federico (1860 – 1940): «Poesie che illustrano la vita leggera, frivola, galante di quella falsa società, che rapidamente si avvia allo sfacelo … Tutto era posticcio, tutto falso: falsa la bellezza femminile, falsi i capelli, i nei, il colorito; falso l’uomo, falsa anche l’arte …».

Dall’alba dell’Ottocento fino ai primi del Novecento la letteratura sul carattere, gli usi e i costumi dei palermitani diventa quasi sterminata, con giudizi che spesso sembrano ricalcare quelli tratteggiati negli esempi che ho riportato. A cominciare dalla corposa opera antropologica di Giuseppe Pitrè, e dalle abusatissime osservazioni di J. Wolfgang Goethe; per continuare con Michele Palmieri di Miccichè, con una infinita sequela di viaggiatori stranieri, con Alexandre Dumas, con un acuto Edmondo De Amicis, con Massimo D’Azeglio, con Cesare Mori, con Raleigh  Trevelyan e Tina Whitaker, fino a Luigi Natoli.

Meritatissima, infine, la fama di quelle considerazioni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che in quelle venti pagine del “Gattopardo” con il cavaliere Chevalley fa la sintesi perfetta e scultorea del modo di essere siciliano. E come sempre acuto il commento di Leonardo Sciascia: «L’esplicito astoricismo del Lampedusa, il suo  prendere e lasciare l’uomo siciliano per come sempre è stato e per come sempre sarà, nasce proprio dall’apparenza e illusione di una inalterata e inalterabile continuità del modo di essere siciliano.

Perché altro non può essere che apparenza, che illusione, una così indefettibile continuità, una così assoluta refrattarietà alla storia» [8].

«Una paurosa crisi di identità»

Eppure, nonostante l’esorbitante quantità di scrittori che in tutti i secoli se ne sono occupati, siamo sicuri di avere finalmente capito “chi siamo” noi siciliani e palermitani? Si direbbe di no, visto che continuiamo ad arrovellarci su questo argomento. Nell’ultima trentina di anni la pubblicistica se ne è fatta carico continuamente, come se nulla fosse stato detto prima.

Così son continuati ad uscire saggi e libri dai titoli più stravaganti: “Sicilia così è, se vi pare”, con gli scritti di 87 autori antichi e moderni; “L’immagine della Sicilia nell’Italia del Settecento”; “Raccontiamo Palermo”, con 46 autori contemporanei; “Nostalgia di Palermo”; “Perdersi a Palermo”; “Leggere e scrivere Palermo”, con 25 autori contemporanei; “Siciliani prepotenti”; fino a “Buttanissima Sicilia”.

E chissà quanti altri ne ho omessi. Senza mai risolvere il problema del “chi siamo”.

Forse andiamo cercando disperatamente la goethiana Sicilia come «chiave di tutto»! 

Perché, sinceramente, alla fine, non sappiamo chi siamo.

Una paurosa crisi di identità.

Riferimenti

1. G. Saladino, “Romanzo civile”, Sellerio, 2000 – p. 139.
2. Ibid. p. 16.
3. Le citazioni di Ibn Hawqal sono tratte da Francesco Gabrieli, “Viaggi e viaggiatori arabi”, Sansoni, 1975.
4. G. Boccaccio, “Decamerone”, giornata ottava, novella decima.
5. L’originale si trova in “Delle cose di Sicilia”, vol. II, Sellerio, Palermo – pag. 286 a 312.
6. Anonimo, “Teatro delle Città Reali di Sicilia”, manoscritto della Biblioteca Nazionale di Madrid; pubblicato da Sellerio, Palermo, 1973 (a cura di Maria Giuffrè).
7. J. Hager, “Impressioni da Palermo”, Sellerio, Palermo, 1997 – pagg. 94 e 95.
8. “Delle cose di Sicilia” cit. – pag. 241.

Seminario "Marcello Carapezza"