Cambiamo la ricerca e l'Università italiane? Sì, ma cum juicio

di Angelo Fanelli e Mario Pagliaro

Sommario:
Il Governo tenta di riformare la ricerca e l'Università italiana. Le reazioni sono tempestose e vengono evocate la perdita dell'autonomia e l'interferenza delle imprese. Ma senza un cambiamento urgente e radicale delle sue istituzioni pubbliche di ricerca ed alta formazione, l'Italia è attesa da un declino strutturale e prolungato.

Mario Pagliaro: Federico Zeri, il CNR e l'Università italiana

La lettera aperta (PDF) del professor Giavazzi al Ministro Moratti sul Corriere del 3 febbraio, con l'invito a resistere alla debole corporazione dei dipendenti del CNR (quorum ego), è – come il decreto legislativo in itinere – troppo debole.

Al solito lapidario, ma profondo, Federico Zeri liquidò la domanda dell'intervistatore Manlio Triggiani (in "Lo Stato" del 7 luglio '98):

"L'Università italiana? E' un'associazione a delinquere. E l'organizzazione è sbagliata. In tutto il mondo, salvo che in due o tre Paesi, il professore è a contratto. Vince il posto, firma un contratto con lo Stato, che dura tre o quattro anni, e alla fine può essere rinnovato su scrutinio della facoltà e degli studenti. Questo impedisce che i professori impartiscano una sola lezione l'anno; che tutto sia in mano agli assistenti; che donnette molto disponibili vadano in cattedra. 

"Ci sono casi scandalosi... in Italia, una volta che il professore viene nominato, resta tale vita natural durante. E' inevitabile che una istituzione del genere si corrompa. Ci deve essere il diritto degli allievi e delle facoltà di dare un parere sull'operato del professore. Perché le università tedesche o americane vanno particolarmente bene? Perché c'è un continuo ricambio e i docenti sono a contratto. Qui il professore sembra un semidio".

Il grande professor Zeri si era laureato anche in chimica e in agraria. Divenuto immenso interprete dell'arte, la sua opinione dei colleghi universitari italiani non gli ha impedito di lasciare proprio ad un'Università (Bologna) il suo patrimonio di fotografie e scritti con la sua villa di Roma: a disposizione di tutti, e in primo luogo degli studenti universitari italiani. 

Dono di un grande professore italiano.

Irridere alla sua proposta di riforma dello status di professori e ricercatori come quella di un geniale estremista è sbagliato. E la proposta di Adriano De Maio di limitare ai soli 3 anni iniziali la valutazione del docente con la possibilità di bocciarlo e degradarlo a docente a disposizione nelle graduatorie scolastiche, nuovamente troppo debole.

Perché solo dopo i primi 3 anni e non per sempre? Non sono forse i nostri concittadini a pagarci col loro lavoro lo stipendio? E quando la loro impresa è in crisi, perdono il loro posto di lavoro o amenamente passano all'incasso il 24 del mese?

I ricercatori del CNR e i professori universitari italiani sono donne e uomini come gli altri.

Se gli offriremo la possibilità di non fare nulla, di non essere mai valutati, di entrare in relazioni oscene con partiti politici, confraternite varie e organizzazioni sindacali (chi scrive è un cattolico iscritto alla Cisl, convinto sostenitore della dottrina sociale della sua Chiesa) che gli garantiranno carriera, finanziamenti e prebende; e infine, addirittura, nessun orario di lavoro con la possibilità di esercitare lucrose professioni al di fuori dell'Università – Cosa faranno, i ricercatori e i professori universitari italiani?

Andranno con pazienza ed entusiasmo a formare la nuova classe dirigente del Paese? O, capita l'antifona, si daranno agli affari, nel segno di un clamoroso assenteismo, al massimo ripiegando sulla famiglia e i propri interessi privati?

E' tutto qua. La moneta cattiva che scaccia quella buona. Nessuno avrebbe da lamentarsene e tutto continuerebbe eguale, CNR o Università, non fosse che le nostre imprese hanno una concorrenza micidiale e crescente cui tener fronte.

Devono rinnovare i propri prodotti, imparare a produrre di più con meno risorse, rinnovare la comunicazione e imparare ad utilizzare in modo realmente efficace le nuove tecnologie; e devono per forza crescere dalla microdimensione media di 4 dipendenti/azienda: per cui, hanno bisogno di finanziarsi in modo nuovo e non più soltanto con la vecchia banca locale.

L'unico modo in cui possono farlo è assumendo e mantenendo con sé giovani realmente qualificati capaci di guidarle al successo in un'epoca in cui la concorrenza è arrivata davvero, e non sta soltanto nei libri degli economisti.

 E produce a costi inferiori prodotti migliori usando metodi come la "produzione snella", mentre i loro agenti commerciali hanno nei loro PC lo stato degli ordini e delle consegne aggiornato in tempo reale.

Ora, per rendere realmente altamente qualificati i nostri giovani, abbiamo bisogno di Università e centri di ricerca con professori e ricercatori radicalmente migliori di quelli di oggi. Per farlo, è necessario prima di tutto privare l'attuale casta di mandarini di cui facciamo entrambi parte il professor Giavazzi ed io dello scandaloso privilegio di lavorare senza dover mai rendere conto a nessuno del proprio operato. 

Senza, cioè, che la valutazione comporti avanzamenti di carriera per i meritevoli, e il licenziamento dei troppi che lavorano poco e male. O che addirittura non lavorano affatto.

Poi, per attrarre all'insegnamento e alla ricerca i giovani più dotati, è necessario creare un sistema di incentivi economici e di carriera rilevanti e certi: che faccia concorrenza, per esempio, a quello delle multinazionali della consulenza che altrimenti continueranno a prenderseli tutti loro, i giovani migliori.

Angelo Fanelli: Attenti alle imprese e ai miti manageriali americani

La faccenda della riforma universitaria Italiana, e la nota di Mario, hanno più che stimolato il mio interesse. Da "cervello in fuga" (i.e. italiano all'estero) condivido alcuni punti che Mario fa presenti. Tuttavia, invito a considerare i seguenti aspetti:

1. Sottoporre i docenti a valutazione continua, orari di lavoro, ecc.: ma perché dobbiamo trasformare l'accademia in posto di lavoro tradizionale quando nemmeno le imprese credono più nel modello delle otto ore? Secondo: chi entra all'università lo fa proprio perché l'accademia è un luogo dove funzionano regole diverse. 

Una delle ragioni della mia scelta è stata il fatto che nell'accademia NON ho un capo che mi dice quel che fare, NON ho orari (posso lavorare la domenica o non andare affatto in ufficio per mesi e lavorare a casa), e sopratutto, una volta soddisfatti alcuni requisiti minimi di produttività (pubblicazioni e docenza), posso studiare i temi che mi interessano, con l'approccio che mi interessa senza che nessuno mi venga (e scusate il termine) a rompere i coglioni. 

Tra l'altro, questa "flessibilità" e "protezione dell'impiego" se volete, è diffusa in tutti i paesi del mondo – sopratutto negli USA, che della "Tenure" fanno una questione di Academic Freedom. Perché dobbiamo risolvere i problemi all'italiana – cioè inventandoci un nuovo sistema di regole e regolette con sua sua bella burocrazia di controllo?

2. La questione della valutazione mi porta direttamente al tema del Chi valuta, e Su cosa? L'idea del valutare l'Università mi sta bene, ma valutare SU COSA? Chi ha detto che il ruolo dell'Università è di "stimolare la produttività delle imprese" e "creare lavoratori con le competenze necessarie alle imprese"? 

Una situazione del genere io la vivo tutti i giorni: lavoro in una business school americana. Sul fronte ricerca, puoi star certo che se non studi "job performance" o "firm performance" sei fuori dal gioco: irrilevante. L'unica cosa che conta è che l'università dia un servizio "alle imprese", che significa dare un servizio ai MANAGER di queste imprese (che, guarda caso, siedono nel consiglio di amministrazione dell'Universita'). 

Ma chi ha stabilito che sono questi gli attori che debbono trarre beneficio dall'Università? Stessa cosa in Italia: se volete che l'Università diventi una sovvenzione alle imprese, stabiliamolo esplicitamente. Il discorso del "fare il bene del paese", francamente, non lo bevo. Fare il bene DI CHI? E chi decide? 

Stessa cosa sull'insegnamento: quando l'Università ha come ruolo produrre lavoratori docili, il ruolo del docente (che secondo me dovrebbe essere quello di produrre cittadini critici e capaci di pensare con la loro testa) si trasforma in quello di semplice addestratore. In aula, se non offri "metodi concreti" e se non dai la possibilità agli studenti di impararsi a memoria il testo, non conti nulla. 

Prova a mettere da parte il voto finale (l'unica cosa che conta) e ti ritrovi nei guai. Nel frattempo, gli studenti/consumatori diventano docili docili docili, rispettosi dell'autorità e pronti ad accettare qualsiasi cazzata che il sistema gli propina. 

Faccio un esempio: discutevo in classe il problema della tecnologia, i risvolti negativi dell'introduzione di nuove tecnologie. Ho chiesto ai miei studenti, un gruppo di Master in Accounting, quale sarebbe la loro reazione alla introduzione di un software che elimina la necessità per le imprese di assumere degli accountant (volgarmente detti in italiano commercialisti, NdR). Uno dei miei studenti è arrivato a dirmi che "se è per il bene dell'impresa e dell'efficienza, l'eliminazione della professione dell'accountant è cosa buona e giusta". 

3. Fare concorrenza alle multinazionali della consulenza: personalmente, credo sia un errore, destinato ancor di più a sottolineare la sovrapposizione tra il mestiere dell'accademico e quello del consulente. Un accademico NON E' (e non deve essere, secondo me) un consulente. Attenzione a fare giochini con gli incentivi, perché gli incentivi determinano il tipo di persone che entrano in una organizzazione. 

Competere con le multinazionali della consulenza, alla fine, porta esattamente a questo: riempire l'Università di consulenti e di persone motivate dal denaro. Lasciamo da parte il fatto che l'Università (in nessun paese) non sarà MAI in grado di competere con le multinazionali della consulenza (e anche la scelta di questo "concorrente", Mario, la dice lunga sul modello di Università a cui aspiri e sul ruolo che dovrebbe avere nella società), e concentriamoci per un attimo sul cosa succede quando le Università "competono per i talenti", come qui negli USA. 

Primo: l'accademia comincia ad essere popolata di dipartimenti ricchi e di poveri cristi. Qui negli USA lo stipendio di un Assistant Professor appena assunto nel college of Business può raggiungere 2 o 3 volte lo stipendio di un Full Professor nel dipartimento di Inglese con più di 30 anni di esperienza. Continuiamo a ripeterci la manfrina dell'Italia culla della cultura: prepariamoci a vedere le facoltà e i dipartimenti meno utili "alla produttività delle imprese" scomparire nel nulla: Lingua e Letteratura, Archeologia, Filosofia, etc. 

Cominciamo ad aspettarci facoltà di Farmacia che, pagati dalle case farmaceutiche, ne testano i prodotti (con buona pace del "consumatore"). Siamo certi che questa è l'Università che vogliamo? 

Altra questione legata agli stipendi dei professori. Una delle conseguenze che "il mercato" crea, quando introdotto nella professione accademica, è che ciascuno si concentra solo su ciò per cui e' valutato: ricerca, (poco e male) insegnamento, e niente attività di "servizio" (quelle che servono per far funzionare l'Università, per capirci). 

Conseguenze: la nascita di una nuova categoria, i manager dell'Università, che finiscono per impadronirsene, rendendola sempre più simile ad una "impresa". L'Università della Florida, per fare un esempio, ha appena stabilito un aumento di 100mila dollari all'anno per il Presidente

Nello stesso tempo, per tirare sui costi, il personale di servizio (pulizie, etc.) sta per essere de-sindacalizzato, anticamera per l'esternalizzazione dei servizi, sfruttamento di immigrati illegali e via cantando. Seconda conseguenza: la redistribuzione dei rapporti di potere all'interno dei dipartimenti. Faccio un altro esempio: nel nostro dipartimento, dopo il taglio dei fondi operato da Jeb Bush si risparmia anche sulle buste da lettera. 

Niente fotocopie, gli studenti di dottorato non hanno assistenza sanitaria, e cosi via. Un giovane assistant professor "va sul mercato", e ottiene una offerta da una altra università. Con l'offerta in mano va dal direttore del dipartimento e chiede (ottenendolo) un aumento del 40% del proprio stipendio (inizialmente fissato a 120mila dollari l'anno). Ovvio che tutti gli altri professori cominciano a porsi la domanda "ma io che sono da meno?". Tempo due settimane e anche gli altri professori cominciano a darsi da fare. 

Nel frattempo, noi che siamo "nella stiva" dobbiamo comperarci le buste da lettera. 

Terza faccenda, non da poco: anche dato per scontato che l'Università Italiana debba "competere" (e secondo me questo e' un grosso errore), chi paga? Di fondo, la questione del CHI PAGA non ha solo a che fare con il bilancio dello Stato, ma e' una questione fondamentale di ACCESSO e di FORMA DELLA SOCIETA'. 

L'accesso all'Università è uno dei meccanismi primari per la mobilità sociale. Chiedi agli studenti di pagare per il costo totale dell'educazione universitaria e quello che ottieni è una grossa macchina che risputa le differenze sociali esattamente come le ha inghiottite. Il caso degli USA, da questo punto, e' esemplare: l'Università e' un beneficio per chi se la può permettere. Chi non può, che venda il proprio futuro, indebitandosi per dieci o vent'anni. 

Tra l'altro, una delle conseguenze di questo sistema (sviluppato, non a caso, dopo la guerra del Vietnam) e' che l'Università cessa di essere il luogo della critica nella società: se i professori sono impegnati a guadagnarsi lo stipendio e gli studenti a guadagnarsi i voti per uscire alla svelta e ripagare i debiti, di certo non hanno tempo per criticare le scelte di chi comanda. Con il sistema attuale, la guerra del Vietnam probabilmente si sarebbe prolungata per altri anni. 

4. La fuga di cervelli: ma perché dobbiamo per forza riprenderci i "cervelli" italiani? Chi dice che non sia meglio sviluppare delle condizioni che rendano la carriera accademica Italiana attraente per i cervelli del terzo mondo? Gli USA, che in questo sono maestri, funzionano proprio grazie ai cervelli Indiani, Cinesi, etc. che affollano i College of Engineering, Computer Science etc. 

In tutto questo, non nego che l'Università italiana abbia dei problemi seri e non dico che tutto debba restare com'è. Io stesso me ne sono andato perché non ne sopporto alcuni aspetti. Se vogliamo cominciare a risolverli, tuttavia, è necessario, secondo me, smettere di mitizzare gli Stati Uniti e cominciare a fare una riflessione seria sul ruolo dell'Università nella società italiana, e non nel mondo delle imprese. 

Dobbiamo smetterla di piangerci addosso e riconoscere il valore di quelli che l'Università la vivono e la rendono viva tutti i giorni, malgrado gli stipendi da fame. Dobbiamo cominciare a chiederci "PER CHI?" e quale società vogliamo. Attenzione perché l'efficienza è sempre "efficienza per qualcuno".

Sulla questione riforma dell'Università la mia preoccupazione più grossa è che "si butti via il bambino con l'acqua sporca" in nome di un'America che è sopratutto mito, e che nel concreto (mal)funziona come (e forse peggio, se teniamo conto della quantità immane di risorse di cui dispongono le Università USA) l'Università italiana. 

Credo che un buon punto di partenza potrebbe essere quello di interrogarsi sui DIFETTI del sistema americano, prima di abbracciarne i principi in toto – magari potremmo anche essere in grado di sviluppare un sistema accademico nuovo, diverso, invece che una brutta copia di quello americano.

Cum juicio, claro. Ma se non cambiamo Università e ricerca, l'Italia è finita

Caro Angelo: Tu sei un umbro vero, un uomo d'onore: cito un tuo pensiero nella introduzione al mio libro, Scenario: Qualità, fin dalla sua prima stesura. Questo: 

"Occorre chiedersi quale competitività può derivare da una riduzione di qualche punto percentuale del costo del lavoro rispetto ad un intervento mirato ad incrementare il valore del lavoro e a migliorare la capacità di impiego delle risorse presenti all’interno e all’esterno delle imprese".

Ora, le tue argomentazioni, lo slogan di Ticonzero ("emergenze organizzative, tecnologiche e manageriali"), la tua stessa presenza in Florida parlano del genio italiano, e della nostra grande cultura.

Una cultura che, però, è mortificata dalle pratiche indecenti che accadono nelle Università, svergognata dai comportamenti e dai modi di essere di troppi, veramente troppi docenti universitari italiani: che alla tradizionale astrattezza e verbosità fustigate dal grande Indro Montanelli, aggiungono oggi un amore per il denaro e il potere al cui confronto lo stipendio del presidente dell'Università della Florida è una cosa per educande.

Basta leggere i nomi nei consigli di amministrazione delle imprese, le spese di consulenza delle fameliche Regioni italiane, dei Tribunali e delle mille Agenzie pubbliche di controllo e restare esterrefatti leggendo compensi e numero degli incarichi. L'Università italiana – (il CNR, con qualche eccezione, non ne è stato che una semplice appendice interamente controllata dai professori universitari, con i ricercatori più bravi in attesa del salto verso la cattedra) –  ha tradito il suo compito. 

Non forma nei giovani che si laureano (il 15% degli iscritti!) l'attitudine alla critica; competenze all'avanguardia.

La responsabilità, tuttavia, non è di noi accademici e ricercatori. Ma di chi ce lo ha consentito: la classe dirigente politica e industriale. Ora, io sono un democratico cristiano: considero con ammirazione e riconoscenza la memoria e l'opera di un altro grande professore universitario, Giuseppe Petrilli, valoroso presidente dell'IRI – la nostra holding industriale pubblica stupidamente liquidata mentre francesi, giapponesi, tedeschi e persino i coreani mantengono tutto (e dico TUTTO nelle mani dei loro efficienti Stati). 

La responsabilità è stata e storicamente è dei 2 grandi partiti di massa italiani, il democratico cristiano e quello comunista. Transeat, diciamo così, per la latitanza dell'impresa italiana che – se solo potesse – non vedrebbe l'ora che tornasse un altro bel Cavaliere romagnolo da finanziare lautamente (come fecero appena 70 anni fa: e non pensare che siano passati troppi anni; in queste cose, si fa in fretta) che rimettesse dazi, franchigie e barriere d'accesso al mercato: e via questa maledetta concorrenza straniera...

Comprendere che la società del XXI secolo sarebbe stata quella della conoscenza, e che quindi era necessario fortificare, proteggere e migliorare le Università e i centri di ricerca pubblici come luoghi unici e insostituibili della formazione di una grande classe dirigente (e quindi, ovviamente, di sviluppo delle nostre imprese) era un compito dei nostri politici. Non lo hanno fatto. E oggi ne paghiamo le conseguenze. 

Ti faccio solo un esempio. Internet.

Internet? Intranet? Comunicazione tempestiva, semplice e ubiqua? Abbiamo le PMI, in Italia, che tengono in piedi la nostra economia. Quale migliore occasione, allora, che uno strumento di informazione libero, gratuito, ubiquo e per giunta interattivo per far conoscere al mondo la qualità dei prodotti italiani? Per parlare con i nostri clienti, curarli e farne crescere il numero e la qualità in ogni parte del mondo?

Il cibo italiano, per esempio.

Eppure, inizio del 2003, basta andare a guardarne i siti per restare sconsolati. Vetrine caotiche, assurde animazioni, vuote enunciazioni in italiano da semianalfabeti e traduzioni in inglese stile Ferrovie dello Stato.

Le nostre imprese – proprio come le nostre amministrazioni – non sanno proprio cosa farsene di Internet e stanno mancando, ogni giorno, un'opportunità storica. Così abbiamo invitato Antonio Tombolini al Quality College del CNR a spiegarci lui se era in corso o meno un'Evoluzione Internet per l'impresa italiana? 

Il fondatore di Esperya liquidato da De Benedetti (che di Esperya comprerà il 70% delle azioni), autore di una straordinaria tesi sul pensiero di Heidegger, sostiene – e noi con lui – che Internet sia esattamente un eccezionale nuovo strumento di relazione, e quindi luogo ideale per la vendita dei beni e dei servizi delle nostre imprese.

"Il libero mercato? Il libero mercato – dice von Hayek – è un gigantesco sistema informativo". Quindi, se questo è vero, Internet è per sua natura il nuovo luogo del libero mercato: il Simulmondo di Carlà che consente anche a periferici Istituti del negletto CNR del negletto Meridione italiano di interrelarsi ai grandi del mondo, spezzare le catene della marginalità e volare!

Così come consentirebbe alle nostre imprese di spezzare le catene della comunicazione di massa da pagare profumatamente (e in anticipo) o alle uniche 2 imprese che vendono spazi in TV (Sipra della Rai e Pubblitalia per Mediaset; l'altra, Cairo per La 7 di Telecom Italia, crescerà rapidamente) oppure agli Agnelli (Publikompass) o al loro congiunto principe Caracciolo (Manzoni, Gruppo Espresso).

Hai notizia, Angelo, di qualcosa di serio che la nostra Università abbia fatto o stia facendo in spirito di pubblico servizio – cioè gratuitamente e aperto a tutti (non i giochini con i soldi comunitari dei fantomatici "fondi sociali europei") – per diffondere un uso efficace e strategico di Internet presso le imprese e i giovani italiani? 

Qui, o si cambia rapidamente, o l'Italia è attesa da un declino strutturale che ti farà scegliere la Florida e l'America (con tutti i loro difetti) per il resto della tua carriera. E il fatto è: qui non possiamo più permetterci oltre di perdere quelli come te.

Per saperne di più

I corsi di formazione manageriale del Quality Tour e il libro di Mario Pagliaro, Scenario: Qualità.


Angelo Fanelliumbro, classe 1968, laureato in Bocconi nel 1994, nel 1997 ha fondato la rivista manageriale on-line Ticonzero dell'Università milanese al termine di una prima sperimentazione con l'utilizzo di Internet nella formazione per le aziende (il progetto Ricoh E-College). Ha un Ph.D. al Warrington College of Business della Università della Florida. 

Mario Pagliaro, chimico del Cnr e formatore manageriale, lavora presso la sede di Palermo dell’Istituto dei materiali nanostrutturati dove collabora con ricercatori di 9 Paesi, incluso Israele. Nel 1998 ha fondato nel capoluogo siciliano il Quality College del CNR dove fra il 1999 e il 2004 ha formato decine di imprenditori, manager e giovani laureati di tutta Italia sui temi strategici per le imprese italiane facendo intervenire come co-relatori Francesco Giavazzi, Leoluca Orlando, Igor Righetti, Antonio Tombolini, Salvo Sottile, Antonello Perricone, Claudio Santori e Romano Bonfiglioli.


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