Newsletter di Mario Pagliaro, 4 agosto, 2005:

La pubblicità, dunque, muore

Sommario:
La pubblicità muore: a partire dagli USA dov'è nata; e le imprese devono urgentemente ripensare il modo con cui comunicarsi ai loro clienti.

Geniale come spesso gli capita quando parla di Internet e di affari, l'imprenditore marchigiano Antonio Tombolini vi insiste da alcuni anni: la pubblicità è morta.

Ed ecco che il settimanale generalista più venduto al mondo, Newsweek, annuncia per la prima volta salta un numero ad agosto a causa della mancanza di pubblicità.

Terrorizzati, riferisce il numero corrente di Prima Comunicazione, i boss della pubblicità americani si sono riuniti a Princeton per discutere la crisi della pubblicità: gli spot da 60 secondi non funzionano più, e le grandi imprese hanno iniziato la fuga dalla televisione.

Così, scrive Guido Vitale in un articolo che dovrebbe essere riletto, Dave Verklin di Carat Americas, Rick Seirvidis di General Motors Mediaworks, Burt Manning di J. Walter Thompson e Mike Kubin di Ionic Marketing hanno dovuto prendere atto che le profezie dei guru di Internet e delle tecnologie fatte appena qualche anno fa sono divenute -- ahiloro -- realtà: "L'audience è finita in pezzi".

Attento come sempre, il capo dei pubblicitari italiani Giulio Malgara -- fondatore nel 1984 (e presidente a vita) di Auditel -- citava proprio il dialogo con Antonio Tombolini pubblicato in questa colum, come ispiratore del suo intervento al convegno ("Protagonismo televisivo e nuovi consumi") promosso a Roma da Mediaset lo scorso 29 aprile.

Attento come sempre, il capo dei pubblicitari italiani Giulio Malgara -- fondatore nel 1984 (e presidente a vita) di Auditel -- citava proprio il dialogo con Antonio Tombolini pubblicato in questa colum, come ispiratore del suo intervento al convegno ("Protagonismo televisivo e nuovi consumi") promosso a Roma da Mediaset lo scorso 29 aprile.

La fine del 30-second spot e il target squagliato

A preoccupare un altrimenti raggiante Malgara -- che nonostante la crisi economica più grave dal dopoguerra -- assiste ai profitti record delle aziende concessionarie della pubblicità televisiva nazionale -- Sipra e Pubblitalia -- è l'osservazione di Tombolini per cui:

La pubblicità non è viva se fa vendere di più, ma se fa guadagnare di più; perché il costo pagato dagli inserzionisti necessario a ripagare l'investimento è sempre più elevato col risultato che i costi finiscono per superare i profitti generati dalla pubblicità.

Ovvero, gli fa eco Ken Auletta: "Oggi, per ottenere lo stesso risultato di un tempo uno spot dovrebbe essere martellato per 125 volte".

Quindi, nella società della comunicazione in cui i cittadini vengono bombardati senza sosta da immagini e suoni tutti tesi a stimolarne gli acquisti, le persone ormai sature di informazioni non reagiscono più agli stimoli se non a dosi da società orwelliana.

Nel frattempo però che si raggiungano questi livelli, i 412 cittadini su mille della ricca Germania che hanno ormai accesso ad Internet fanno compagnia a voi che leggete questa column nel ritrovare on-line (e gratis) gli oggetti del proprio interesse: amici, musica, news, dibattiti, sport, politica, viaggi, cultura.

E con loro i 160 italiani su mille, inclusa la pressoché totalità dei giovani -- proprio il target così tanto agognato dalle agenzie pubblicitarie che invece, semplicemente, se n'è andato a Nikki Beach.

 

Naturalmente, l'imprenditore dei beni di consumo di massa divenuto miliardario con la pubblicità -- Giulio Malgara -- crede che "imprese e tv abitano galassie eguali e che in tempi di portafogli molto riflessivi (i.e. con i budget decurtati dalla crisi) le imprese debbano imparare a drizzare le orecchie perché il sentiment, la percezione delle cose, il modo di sentire del consumatore è, ancora una volta, la chiave di tutto".

In pratica, spiega ancora il presidente di UPA (Utenti Pubblicità Associati), questo significherebbe "che lo spettatore non sia più disposto a vivere soltanto un ruolo passivo, ma reclami un ruolo di protagonista nella società della comunicazione"; per cui "la comunicazione dovrà capire presto quali saranno le sue carte vincenti. Contenuti nuovi per riempire i palinsesti. Prodotti nuovi per nuovi profili di consumatore" dato che oggi "il consumatore-telespettatore non è più disposto a ridiventare un numero di abbonato, un codice di smart card, anonimo riferimento statistico: la tv della parola deve restituire voce alle vecchie masse indistinte".

La pubblicità non funziona più: Parmalat e Barilla

Ma la distanza fra la realtà e queste parole dette a un convegno, la rendono bene i numeri del conto economico di Parmalat prima e di Barilla oggi.

Entrambe le maggiori imprese italiane dell'alimentare hanno alimentato -- e continuano a farlo, inclusa la nuova Parmalat commissariata dal governo -- una pubblicità massiva su tutti i mass media e ovunque siano presenti i loro prodotti.

Le vendite erano enormi; eppure Parmalat non pagava il latte ai fornitori ed è fallita per 14 miliardi di Euro; mentre Barilla affronta la più grave crisi dalla fondazione con la chiusura di impianti e licenziamenti che non lasciano sperare nulla di buono anche per la multinazionale italiana della pasta.

Che fare? Tornare a comunicare

L'ironia, pensando al livello della programmazione televisiva nazionale di Rai e Mediaset e alla banalissima e indistinta pubblicità modello "sesso&mare" in onda sulle reti nazionali, sarebbe facile.

Ma si finirebbe solo per contribuire al cinismo tutto italiano che vorrebbe fare della qualità nella comunicazione un lusso per nordeuropei o, come le chiama Malgara, per le "teste d'uovo" (ovvero, gli inutili intellettuali).

E invece, le imprese italiane devono tornare a comunicare.

Ma comunicazione significa dialogo: confronto.

Non certo il pulsantino su cui cliccare sbeffeggiato da Beppe Grillo nelle sue invettive contro il digitale terrestre.

I mercati sono conversazioni. E nel libero mercato bisogna imparare a conversare.

Ora, le imprese -- specie le più grandi -- odiano la comunicazione. E ad essa dedicano team di specialisti dediti giornalmente all'elaborazione di un'immagine artefatta che va dalla pubblicità -- interamente affidata ad esperti esterni: le agenzie pubblicitarie -- alle attività di relazioni pubbliche: un modo elegante per significare manipolazione del pubblico e attività di lobbying presso le autorità politiche.

Ed è questo, Giulio, che al tempo di Internet non funziona più.


La mancanza di autenticità. E l'incapacità di interagire con gli individui portatori di interesse nelle attività aziendali: i clienti, che le imprese non sanno ascoltare. E tutti quelli che, per un motivo o per l'altro, hanno qualcosa da dire sull'azienda, sui suoi prodotti e su tutto quello che un'azienda fa o omette di fare.

Lo scopo dell'impresa è realizzare profitti; e non regalare il denaro faticosamente conquistato a concessionari ormai inutili che speculano sulla rendita di posizione garantita dal fatto di essere in due o in tre a farsi "concorrenza".

Che senso ha regalare alcuni miliardi di euro ai canali televisivi nazionali e alle pagine di quotidiani e riviste ormai privi di ragion di vita, quando basterebbe aprirsi un sito web realmente interattivo e trasparente per comunicare con gli utenti?

Che senso ha restarsene chiusi negli stabilimenti e negli uffici, quando basta andarsene in giro per le piazze a parlare di sé con le persone -- le persone, Giulio, e non la "gente"?

Eppure, non è questo che ha fatto Sky quando vide che la pubblicità televisiva non funzionava, e affittati dei tir se mandò in giro le persone a spiegare alle altre persone che cos'era la televisione satellitare?

Che senso ha aver dimenticato in due anni la lezione di Fulvio Zendrini e dei suoi Palatelecom con cui l'impresa, invece del delirio di onnipotenza trasmesso dalle immagini del Mahatma Gandhi e di Marlon Brando, portava le persone vicino all'impresa?

Un senso, naturalmente, ce l'ha.

Ed è che i proprietari delle reti televisive; gli editori della carta stampata; i comuni affamati di denaro che licenziano le loro città alla pubblicità; e le migliaia di dipendenti della tv pubblica in eccesso rispetto a qualsiasi dimensione razionale dell'organico, sarebbero tutti ben felici di potersi continuare a spartire ogni anno i miliardi di una comunicazione d'impresa che -- semplicemente -- non è tale.

E che invece si chiama pubblicità. E che --lo dico all'intelligenza degli imprenditori che vogliono far vivere le loro imprese negli anni che abbiamo di fronte -- sta morendo.

Anni che giustamente Giulio Tremonti chiama "di ferro"; ma che invece, imponendoci di cambiare tutto, portano in grembo un'evoluzione ecologica che libererà gli spazi tanto delle nostre città che dell'etere che tornerà ad essere utilizzato per far crescere -- informare e formare -- gli individui.

Mentre le imprese torneranno nella piazza del mercato dove sono nate.

Come dice Jack Hayes di American Express: "Non abbiamo la sensazione di ottenere l'impatto desiderato, ma solo quello di produrre un annuncio pubblicitario fra gli altri. Stiamo cercando nuove strade per raggiungere i consumatori".

Per saperne di più

Il corso di formazione manageriale Comunicare l'impresa oggi. Vedi anche la column Il marketing, la fine della pubblicità e Tenutazangara.it


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